Sapete quelle serie che vi lasciano addosso qualcosa anche dopo l’ultima puntata? Ecco, The Sinner è esattamente così. Non potevo non raccontarvela.
Vi confesso una cosa da romanticona incallita quale sono: io, le serie tv, non le ho mai amate troppo. Troppa attesa, troppi episodi… io ho bisogno di sapere subito come finisce!
Poi, spinta (o meglio, travolta!) dall’entusiasmo dei miei figli, ho deciso di dare una possibilità a una serie.
E da lì? Mi sono rovinata. Letteralmente.
Adesso passo notti intere sveglia, maratone selvagge fino all’alba, una stagione dopo l’altra… senza tregua!
Il bello è che da scrittrice di romanzi rosa, mentre guardo, non riesco a spegnere la testa: osservo i dettagli, i silenzi, i dialoghi. Mi chiedo come lo avrei scritto io, come avrei fatto dire certe cose ai personaggi… E la critica interiore – quella voce un po’ severa – si fa sentire. Cattivella, forse. O forse solo appassionata. (Anche se c’è chi dice che sono fin troppo buona!)
Ma questa stagione, questa storia… mi ha preso il cuore.
E allora oggi vi porto con me dentro The Sinner — la serie che mi ha sorpresa, scossa, e che adesso occupa un posto speciale tra le mie notti insonni e il mio cuore di spettatrice innamorata.
The Sinner
Il lato oscuro di ognuno di noi
Una serie che non cerca colpevoli, ma verità. E l’ultima stagione ci spezza il cuore.
Se pensate che The Sinner sia il solito crime drama fatto di investigazioni lineari e colpi di scena costruiti a tavolino… vi sbagliate di grosso. Questa serie targata Netflix, ispirata all’omonimo romanzo di Petra Hammesfahr, è qualcosa di molto più profondo, disturbante e umano. È una vera e propria discesa nella psiche delle persone. Una domanda domina ogni stagione: perché lo hai fatto? E la risposta, quasi sempre, ci colpisce allo stomaco.
Ogni stagione di The Sinner è autoconclusiva e affronta un nuovo mistero, ma con un protagonista fisso: il detective Harry Ambrose, interpretato da un eccezionale Bill Pullman. Ambrose non è il classico investigatore: non cerca solo chi ha commesso il crimine, ma soprattutto cosa si cela dentro chi l’ha fatto. Non giudica, osserva. E spesso si perde anche lui, insieme a noi.
Stagione 1: Una giovane madre, Cora (Jessica Biel), uccide brutalmente uno sconosciuto in spiaggia, davanti a tutti. Nessuno capisce il motivo. Nemmeno lei. La prima stagione è un’esplosione di tensione emotiva e un viaggio nei traumi repressi.
Stagione 2: Un bambino di 11 anni avvelena due adulti. Inizia così un’indagine che scava nelle dinamiche familiari e in una setta che ha condizionato la sua crescita. Il focus si sposta sulla manipolazione psicologica e sull’innocenza perduta.
Stagione 3: Ambrose indaga su un incidente d’auto sospetto, dove un uomo apparentemente perfetto nasconde una spirale di ossessioni e una ricerca del brivido estremo. Un thriller esistenziale che si trasforma in duello mentale.
Le prime tre stagioni colpiscono forte, ma è nella quarta che la serie cambia pelle e diventa ancora più profonda.
Stagione 4 – L’ultima corsa di Ambrose
Ed eccoci alla quarta e ultima stagione, forse la più introspettiva e malinconica di tutte. Ambrose è in pensione e cerca un po’ di pace in una piccola isola nel Maine, insieme alla sua compagna Sonya (Parisa Fitz-Henley). Ma la quiete viene infranta quando assiste casualmente alla misteriosa scomparsa di Percy Muldoon, una giovane donna appartenente alla potente famiglia Muldoon, che domina l’economia e la politica locale.
Ambrose, come sempre, non riesce a restare fuori. Qualcosa in Percy lo tocca profondamente. Inizia così una nuova indagine, non ufficiale, dove segreti, bugie e tensioni familiari si intrecciano in una spirale emotiva.
La quarta stagione ha un ritmo diverso: più lento, più profondo, più personale.
Non è solo un mistero da risolvere, è una riflessione sulla colpa, sull’identità e sulla solitudine.
Da fan della serie, questa stagione mi ha colpita in modo particolare. The Sinner 4 non è solo un giallo da risolvere: è una riflessione lenta e malinconica su ciò che ci portiamo dentro, su quanto i nostri traumi non scompaiano con il tempo ma diventino parte di noi.
Avete notato che Ambrose è cambiato? È più fragile, quasi esausto, ma non può fare a meno di cercare la verità. E in Percy Muldoon c'è qualcosa che lo specchia, che lo spinge a non mollare. La tensione non è data tanto dal “chi è stato?”, ma dal “perché è successo?”, e questo rende tutto più intimo e coinvolgente.
La stagione è più “emotiva” che investigativa, ma proprio per questo è potente.
Questa quarta stagione rappresenta quasi una chiusura del cerchio per Ambrose. Dopo tre stagioni in cui ha cercato risposte negli altri, stavolta sembra voler comprendere sé stesso. L’isola è una prigione ma anche un santuario, e Percy è una figura quasi spirituale, che guida Ambrose in un viaggio interiore.
Questa non è una stagione che urla. È una stagione che sussurra, che scava piano ma in profondità. È più difficile, ma se ci entri… non ne esci uguale.
Harry & Percy: due solitudini che si riconoscono
Harry Ambrose (Bill Pullman): Un detective umanissimo, pieno di fragilità e senso di colpa. In questa stagione appare più vulnerabile che mai. È stanco, disilluso, ma incapace di voltarsi dall’altra parte. Pullman ci regala una performance silenziosa ma potentissima: ogni gesto, ogni esitazione, racconta un mondo interiore.
Percy Muldoon (Alice Kremelberg): Giovane, tormentata, intrappolata in una famiglia che la soffoca. Percy è un personaggio che lascia il segno: dolce ma lucida, misteriosa ma profondamente vera. Alice Kremelberg è bravissima nel renderla viva anche quando non c’è più. La sua presenza aleggia, come una coscienza collettiva.
Il confronto tra i due è il cuore pulsante della stagione: sono due anime affini, in epoche diverse, che si riconoscono nel dolore e nel desiderio di liberarsi da qualcosa. Non c’è romanticismo, ma qualcosa di più profondo: la compassione.
Sean Muldoon (Neal Huff): il cattivo che non ha bisogno di urlare. Lo zio di Percy, autoritario, devoto alla famiglia e al controllo. È il volto tranquillo del potere tossico, quello che non urla ma decide. Neal Huff è perfetto nel ruolo: glaciale, sicuro, spaventoso nella sua “normalità”.
Sean rappresenta il male che si giustifica, quello che fa danni convinto di agire per il bene comune. È il patriarcato, la tradizione cieca, l’orgoglio che soffoca. E proprio per questo è così credibile… e spaventoso. Non serve che minacci: ti controlla con lo sguardo, con il silenzio.
Perché guardare The Sinner?
Perché ti obbliga a guardarti dentro.
Perché ogni episodio non ti chiede “chi è il colpevole?”, ma “che ferita nasconde questa persona?”.
Perché non giudica, ma racconta. E ci fa capire che dietro ogni gesto, anche il più assurdo, può esserci un dolore reale.
The Sinner è una serie crime per chi ama pensare, sentire, scavare.
È un noir psicologico, un’indagine non solo su chi ha fatto cosa, ma su chi siamo davvero.
E la quarta stagione, pur essendo l’ultima, è la più intima. Forse anche la più bella.
Se sei già fan della serie, preparati a emozionarti ancora.
Se non l’hai mai vista... adesso sai da dove cominciare.
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