Questa poesia di Majida Mohammadi è un grido potente di resistenza, identità e libertà femminile. Il titolo "Non le si addice la virgola" è già una dichiarazione: lei non è una pausa, non è un’interruzione, non è un dettaglio secondario.
Questa poesia nasce dal rifiuto di ogni forma di silenziamento. È un inno alla donna che non si piega, che non si lascia definire da strutture patriarcali o da aspettative sociali. Ho voluto dare voce a quella ribellione silenziosa che cresce dentro molte di noi — come una palma che insiste nel fiorire, anche in terra salata. Non è solo una dichiarazione di identità, ma anche un atto di resistenza contro ogni tentativo di ridurre la complessità dell’essere femminile a una semplice virgola in una frase scritta da altri.
Majida Mohammadi
Indomita, nel rinunciare alla sua ombra, nell’inchinarsi a un’idea incrinata che ricicla la schiavitù in linguaggio moderno, nelle forme che scolpiscono le donne con l’argilla dell’obbedienza, nell’adattarsi a un soffitto basso per i sogni. Nel camminare tra cortei di applausi a idoli che nutrono i poveri d’illusione e si lavano le mani nel muschio trafugato dal loro sangue.
Indomita, nel piangere davanti a un pubblico che chiede lacrime come spettacolo, nel tacere quando il significato viene violato, e le profezie vengono assassinate nella culla delle loro lettere. Nel diventare metafora quando le si chiede di svuotarsi in una sterile allegoria.
Indomita, nel dire ciò in cui non crede, nel scrivere versi che giustificano le cicatrici della storia o sterilizzano la memoria, nel lucidare ombre stanche con la vernice dell’oblio.
Indomita, come una lettera ribelle in una poesia selvaggia, come una donna che rifiuta di essere virgola in una frase maschile, come una palma che cresce in terra salata e insiste nel dare frutti. Nel stringere la mano al tempo che le ruba il nome e le regala un numero in un fascicolo statistico.
Indomita, e ha il coraggio di rialzarsi ogni volta che muore un po’, e scrive se stessa, come vuole, senza tutela, senza suggeritore, senza scuse che rendano la sottomissione un racconto accettabile.
Majida Mohammadi
Indomita, nel rinunciare alla sua ombra, nell’inchinarsi a un’idea incrinata che ricicla la schiavitù in linguaggio moderno, nelle forme che scolpiscono le donne con l’argilla dell’obbedienza, nell’adattarsi a un soffitto basso per i sogni. Nel camminare tra cortei di applausi a idoli che nutrono i poveri d’illusione e si lavano le mani nel muschio trafugato dal loro sangue.
Indomita, nel piangere davanti a un pubblico che chiede lacrime come spettacolo, nel tacere quando il significato viene violato, e le profezie vengono assassinate nella culla delle loro lettere. Nel diventare metafora quando le si chiede di svuotarsi in una sterile allegoria.
Indomita, nel dire ciò in cui non crede, nel scrivere versi che giustificano le cicatrici della storia o sterilizzano la memoria, nel lucidare ombre stanche con la vernice dell’oblio.
Indomita, come una lettera ribelle in una poesia selvaggia, come una donna che rifiuta di essere virgola in una frase maschile, come una palma che cresce in terra salata e insiste nel dare frutti. Nel stringere la mano al tempo che le ruba il nome e le regala un numero in un fascicolo statistico.
Indomita, e ha il coraggio di rialzarsi ogni volta che muore un po’, e scrive se stessa, come vuole, senza tutela, senza suggeritore, senza scuse che rendano la sottomissione un racconto accettabile.
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