Saturno Magazine, Articolo: MARIA PIA GAROFALO

MARIA PIA GAROFALO

INTERVISTA ALLA NOTA SOPRANO  MARIA PIA GAROFALO

"...la musica possa essere uno specchio non solo per chi la ascolta, ma anche per chi la interpreta. Da lì in poi, non ho più cantato “per” il pubblico, ma “insieme” al pubblico"...

In un panorama lirico spesso dominato dalla tradizione e dalla cautela, Maria Pia Garofalo si distingue come una delle voci più promettenti e audaci della sua generazione. Soprano lirico-drammatico di raffinata sensibilità, ha saputo imporsi per la profondità interpretativa e la coerenza stilistica, soprattutto nel repertorio verista. In questa intervista, ci accompagna nel cuore della sua arte, tra scena, emozioni e visione culturale.

Protagonista di una brillante carriera artistica e intellettuale, la soprano Garofalo si distingue per il suo approccio profondo alla tecnica vocale e alla dimensione espressiva del canto.
Autrice di una metodologia didattica originale sulla respirazione e la voce, ha collaborato con nomi autorevoli, come i Maestri Claudio Montafia e Luigi Pettrone.
Nel 2024 ha ricevuto riconoscimenti di rilievo, tra cui la Medaglia “Dante” dalla Società “Dante Alighieri” di Salerno e la Medaglia al Valor Artistico dal Teatro Lirico di Potenza come miglior interprete pucciniana.
È protagonista del docufilm "Turandot, l’ultima nota" con la regia di Lamberto Lambertini e autrice del saggio "Giacomo Puccini e il fascino di Dante" (Edisud Salerno, 2025), premiato al Parlamento Europeo.
Tra i pochi soprani italiani ad aver cantato nel cortile di Casa Manzoni a Milano, è attualmente impegnata in progetti di ricerca sul repertorio moderno in collaborazione con compositori contemporanei.


A. Kosta: Benvenuta Maria Pia. Io già la faccio salire... Qual è la sua ritualità prima di farlo sul palco? È cambiata nel tempo?

M. P. Garofalo: Grazie per questa bellissima introduzione, che già porta l’anima laddove le parole non bastano.
Negli anni, ho imparato che la ritualità prima di salire sul palco non è solo un gesto tecnico, ma una forma di ascolto sacro. Prima di ogni recita, mi ritiro in un luogo silenzioso, lontano da voci e rumori, e cerco di entrare nel respiro profondo del personaggio che sto per abitare. Porto con me un piccolo oggetto simbolico, a volte una medaglietta, altre volte un pensiero scritto a mano, che mi ricorda perché sono lì: per servire la musica, non me stessa.
All'inizio della carriera era tutto più istintivo, persino un po' caotico: l’adrenalina era la mia guida. Con il tempo, ho sentito il bisogno di radicarmi, di creare uno spazio interiore in cui il corpo, la voce e l’anima possano allinearsi prima di “varcare la soglia”. È un piccolo rito, quasi liturgico, in cui abbandono le ansie e accolgo la grazia del momento.

A. Kosta: Come vive e reagisce il suo corpo in scena, tra disciplina tecnica e libertà emotiva?

M. P. Garofalo: Il corpo, in scena, è come una vela tesa sul vento delle emozioni. È lì, saldo, ma pronto a flettersi, ad assecondare ogni variazione d’umore, ogni increspatura dell’anima. Nella lirica, la voce è certamente la protagonista, ma è il corpo che la sostiene, la orienta, la rende credibile. Per me, la disciplina tecnica è la base imprescindibile: senza di essa non esiste libertà, ma solo confusione. Eppure, una volta che la tecnica è assimilata e interiorizzata, il corpo si trasforma: non è più prigione, ma strumento di espressione totale. Sento ogni gesto, ogni sguardo, ogni passo come un'estensione del suono. C'è un punto magico, fragile e potente, in cui tecnica e libertà si fondono: è lì che sento di toccare la verità scenica. Quando accade, la voce non è più solo mia, è qualcosa che mi attraversa e mi trascende.

A. Kosta: Nella sua giovane ma già intensa carriera, quand'è stata per lei il punto di svolta emotivo o artistico?

M. P. Garofalo: Credo che ogni artista abbia più di un punto di svolta, ma uno in particolare mi ha cambiata profondamente: l’incontro con "La Traviata". Era un momento delicato della mia vita personale, ed entrare nei silenzi, nei sospiri e nella vulnerabilità di Violetta mi ha toccata in profondità. Non era solo una sfida vocale, (che certamente lo è), ma un viaggio esistenziale.
Ricordo con precisione il momento in cui ho cantato "Addio del passato" per la prima volta davanti a un pubblico. C’era una tale sospensione nell’aria, un tale rispetto per quel dolore, che ho capito quanto la musica possa essere uno specchio non solo per chi la ascolta, ma anche per chi la interpreta. Da lì in poi, non ho più cantato “per” il pubblico, ma “insieme” al pubblico.

A. Kosta: Come gestisce il suo silenzio dopo l’ultima nota, quando cala il sipario?

M. P. Garofalo: Quel silenzio, per me, è una delle esperienze più dense e piene della vita di un artista. È il momento in cui la tensione si scioglie, ma non svanisce: si trasforma. A volte lo vivo come una carezza, altre come un vuoto, ma sempre come un tempo sospeso in cui tutto ciò che è accaduto — tra musica, voce e carne — si deposita lentamente.
Dopo il sipario, mi prendo sempre qualche minuto da sola. Non mi tolgo subito il trucco, non rispondo al telefono. Sento il bisogno di restare ancora un po’ in quell’eco, in quella vibrazione che rimane nell’aria e dentro di me.
È lì che avviene il vero dialogo con me stessa: "Ho detto tutto? Ho servito la musica con onestà?" — domande che non sempre hanno risposte immediate, ma che alimentano la mia ricerca.

A. Kosta: Cosa cerca nel pubblico: approvazione, ascolto, o qualcosa di più invisibile ma significativo?

M. P. Garofalo: Non cerco approvazione, anche se ogni artista ha il desiderio naturale di essere accolto. Cerco piuttosto uno scambio autentico. Il pubblico, per me, non è un “giudice”, ma un testimone. Una presenza viva, necessaria. Quando avverto che è con me, nel silenzio, nel respiro, nel battito sincronizzato di emozione... allora capisco che qualcosa è accaduto.
Quello che davvero desidero è che ciascuno trovi nel mio canto qualcosa di sé. Anche se non mi applaude, anche se non lo dice. Se una sola persona, uscendo dal teatro, porta con sé un frammento di verità, allora ho fatto il mio mestiere.

A. Kosta: In quali momenti il suo canto l'ha salvata nella vita reale?

M. P. Garofalo: Il canto mi ha salvata ogni volta che la realtà sembrava troppo pesante per essere affrontata in silenzio. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentita fragile, non compresa, persino disorientata — eppure bastava iniziare a studiare un’aria, ad articolare un fraseggio, a lasciar fluire una melodia perché tutto trovasse senso. Il canto non è solo espressione artistica: per me è stato spesso una forma di resistenza, un rifugio, ma anche una cura. Quando la voce si alza, non solo dentro un teatro ma dentro la vita, succede qualcosa di misterioso: è come se la bellezza restituisse dignità anche al dolore.

A. Kosta: Quanto ha influito l’incontro con la scuola viennese nella sua espressione?

M. P. Garofalo: Molto profondamente. L’esperienza con la scuola viennese ha rappresentato per me una svolta artistica e intellettuale. A Milano avevo trovato la fiamma, il fuoco della passione italiana; a Vienna ho imparato l’arte del cesello, l’equilibrio tra emozione e misura. Il Lied, in particolare, mi ha insegnato il rispetto del dettaglio, del respiro sospeso, della parola scolpita. È una disciplina che forma non solo la voce ma anche il pensiero. Ho portato via con me la capacità di ascoltare il silenzio tra le note e la consapevolezza che ogni frase musicale deve nascere da un’urgenza emotiva vera, mai forzata.

A. Kosta: Come riesce a mantenere l’equilibrio tra il controllo vocale e il trasporto emotivo?

M. P. Garofalo: È una tensione costante, un equilibrio dinamico che si rinnova a ogni recita. La tecnica è il mio corpo interiore: se è solida, mi sostiene anche nei momenti più vertiginosi. Ma non può esistere senza l’anima. Ogni frase deve essere abitata, vissuta, e questo significa che la voce deve diventare carne, respiro, lacrima. L’emozione non può mai compromettere l’intelligenza vocale, ma deve sempre alimentarla. Quando riesco a “sentire” senza perdere la linea del suono, è lì che accade qualcosa di vero: la musica diventa esperienza condivisa.

A. Kosta: C’è stata un’esibizione che l’ha segnata profondamente, magari per un momento umano condiviso col pubblico o per un’emozione personale particolare?

M. P. Garofalo: Sì, ci sono momenti che restano sospesi nel cuore, come piccole eternità. Tra tutti, uno in particolare vive dentro di me con un’intensità speciale: l’esibizione a Casa Manzoni, a Milano.
Lì ho avuto l'onore e la responsabilità di interpretare le grandi eroine pucciniane — da Turandot a Tosca, — in un luogo così carico di storia e pensiero. Era come se le parole di Manzoni vegliassero sulla musica, e ogni frase cantata si inserisse in un dialogo più grande, più antico. Ricordo la tensione emotiva di quel momento: ogni personaggio mi chiedeva una trasformazione, una metamorfosi profonda. Non era una semplice prova vocale o interpretativa, era un viaggio interiore, da una donna all’altra, da una tragedia all’altra, con rispetto, intensità e tutta la mia verità.
Il pubblico era raccolto, attento, quasi in religioso silenzio. Mi sono sentita nuda, ma accolta. Quella sera ho capito davvero che il canto può farsi corpo di memoria, ponte tra epoche e anime. E da quel momento, ogni interpretazione ha portato con sé una parte di quella esperienza.

A. Kosta: Ha mai sentito il peso dell’aspettativa?

M. P. Garofalo: Assolutamente sì. Vincere un concorso importante a vent’anni è stato un grande onore, ma anche una responsabilità. Avevo la sensazione di dover dimostrare continuamente qualcosa: di meritarmi la fiducia, di essere “abbastanza”. Con il tempo ho capito che quel peso può diventare un’ancora o una prigione, a seconda di come lo si vive. Ho scelto di trasformarlo in una spinta gentile, in un motivo per studiare con più rigore e cantare con più autenticità. Il mio obiettivo oggi non è “essere all’altezza”, ma essere vera. E questo alleggerisce il passo e dà senso a ogni nota.

A. Kosta: Qual è la sfida nel cantare Verismo in studio?

M. P. Garofalo: La sfida è duplice: da una parte la mancanza del pubblico, che nel Verismo è quasi un partner emotivo; dall’altra, la necessità di mantenere intatta quella tensione teatrale, pur in uno spazio chiuso e filtrato da microfoni. Quando incido, immagino sempre uno sguardo che ascolta, un cuore che palpita oltre la parete invisibile dello studio. È un gioco di immaginazione e memoria: devo evocare sul nastro quella vita scenica che non si vede, ma che si deve sentire in ogni respiro. Ogni nota deve essere scolpita come se fosse l’ultima.

A. Kosta: Cosa ha imparato da Direttrice Artistica?

M. P. Garofalo: Questo ruolo mi ha insegnato a guardare l’opera da una prospettiva più ampia, più silenziosa, ma non meno intensa. Organizzare un festival significa costruire ponti tra artisti, repertori e pubblico. Significa valorizzare i talenti, fare scelte coraggiose, ma anche pragmatiche. Ho imparato che dietro ogni spettacolo ci sono sacrifici invisibili, intuizioni che nascono nell’ombra, e soprattutto relazioni umane da coltivare con delicatezza. Il palco è la vetrina, ma il miracolo avviene prima, nelle mani di chi allestisce, scrive, coordina, crede.

A. Kosta: Cosa le hanno lasciato il Maestro Vincent Scalera e il Maestro Fiorenza Cedolins?

M. P. Garofalo: Entrambi hanno rappresentato, in momenti diversi del mio percorso, fari fondamentali.
Dal Maestro Scalera ho imparato il valore dell’ascolto profondo. Con lui il pianoforte non accompagna, respira. Mi ha insegnato a non cantare “sopra” la musica, ma dentro la musica. È un uomo di cultura e cuore, e ogni lezione con lui è stata un’occasione di crescita non solo tecnica, ma anche umana.
Alla Maestra Cedolins devo molto. La sua libertà interpretativa, la sua forza femminile, la sua dedizione assoluta all’arte sono state per me fonte d’ispirazione continua. Ho imparato da lei che la voce è corpo e spirito, e che il carisma nasce dalla verità, non dal compiacimento. Entrambi mi hanno trasmesso qualcosa che va oltre l’insegnamento: mi hanno fatto sentire che ero vista, ascoltata, accompagnata.

A. Kosta: Ha mai percepito l’opera come uno spazio di ribellione o di emancipazione personale? Se sì, in quale momento e con quale personaggio?

M. P. Garofalo: Sì, l’opera è sempre stata per me un luogo di ribellione interiore, di emancipazione profonda. È uno spazio dove posso esistere con tutta la mia voce, il mio corpo e la mia verità, anche quelle che nella vita reale a volte restano inascoltate.
Tra i ruoli che più mi hanno fatta sentire libera e combattiva c’è sicuramente Tosca. La sua forza, il suo amore assoluto, la sua capacità di reagire all’ingiustizia fino all’estremo gesto, mi hanno insegnato che anche nella fragilità può esistere un coraggio feroce. In Tosca ho trovato una sorella: una donna che ama, soffre, decide. E che, pur consumata dal dolore, non rinuncia mai a essere padrona del proprio destino.
Anche Turandot, apparentemente distante, fredda, è in realtà un personaggio di grande emancipazione. Interpretarla è stato come abitare il ghiaccio e poi scioglierlo da dentro. Dietro la sua crudeltà c’è una storia di ferite e di paura. Portarla in scena significa incarnare la complessità femminile: la difesa, il potere, la trasformazione attraverso l’amore. Cantare Turandot è stata per me una sfida psicologica e vocale, ma anche un atto di rivendicazione: essere donna non significa essere “piacevoli”, ma autentiche, anche quando si è incomprese.
E poi Maddalena di Coigny, in Andrea Chénier. Lei è una donna che cambia, che cresce sotto il peso della tragedia. Passa dal privilegio alla consapevolezza, dalla leggerezza alla dignità. Quando canta “La mamma morta”, non racconta solo un dolore privato, ma un risveglio morale, una rinascita. Con lei ho sentito cosa vuol dire prendere la parola, scegliere l’amore in un mondo che distrugge tutto. È una figura potentemente umana, e interpretarla mi ha fatto sentire, ogni volta, non solo artista ma testimone.
In tutte queste donne: Tosca, Turandot, Maddalena, ho trovato la possibilità di raccontare anche me stessa: le mie paure, le mie scelte, la mia libertà.

A. Kosta: Qual è stata l’opera che l'ha trasformata interiormente e perché?

M. P. Garofalo: Senza esitazione: Andrea Chénier di Umberto Giordano.
È un’opera che mi ha cambiata non solo come artista, ma come essere umano. Ogni volta che interpreto Maddalena di Coigny, sento che sto attraversando una linea invisibile tra la giovane donna che ero e quella che continuo a diventare.
La sua metamorfosi mi ha profondamente toccata: da ragazza frivola e spensierata a donna consapevole, ferita ma capace di amare con assoluto abbandono, fino al sacrificio.
“La mamma morta” non è solo un’aria: è una dichiarazione di perdita e di resurrezione, di dolore sublimato in bellezza.
In Andrea Chénier ho scoperto la forza della parola poetica e la carne viva del Verismo. È un’opera che pretende autenticità, che non permette compromessi. Mi ha insegnato ad abitare la scena con tutta me stessa, senza filtri. Da allora, nulla nel mio canto è rimasto uguale.

A. Kosta: C’è un ruolo che l'ha fatta sentire vulnerabile, più donna che artista?

M. P. Garofalo: Sì, Violetta.
È un ruolo che non si può interpretare con distanza. Ti chiede tutto: corpo, voce, anima. Quando l’ho affrontato per la prima volta, ho sentito che non potevo nascondermi dietro nessuna tecnica. Dovevo espormi, lasciarmi attraversare. Violetta è l’incarnazione della fragilità che si fa coraggio. Vive con lucidità il proprio destino, ma non rinuncia mai all’amore, né alla libertà di scegliere per sé. Nella sua malattia, nella sua solitudine, nella sua rinuncia finale, ho sentito la mia parte più fragile emergere — e per la prima volta, sul palco, ho avvertito quella vulnerabilità non come un limite, ma come un dono.
Cantarla è come camminare su una linea sottile tra eleganza e verità cruda. In quei momenti, non sono solo un’interprete: sono donna. Con tutto ciò che questo comporta.

A. Kosta: Che rapporto ha con il dolore nei personaggi che interpreta? Lo porta con Lei o lo lascia andare?

M. P. Garofalo: Il dolore è un compagno silenzioso dell’opera. Lo accolgo, lo lascio entrare nel corpo, nella voce, ma non lo trattengo oltre il necessario. Sul palco è materia viva, dev’essere vera, ma dopo… dopo bisogna restituirlo alla scena.
In certi ruoli — penso a Maddalena, a Suor Angelica, a Violetta — il dolore non è un colore: è il centro emotivo della narrazione. Lo vivo ogni sera come fosse la prima, ma con la consapevolezza che non posso portarlo con me fuori dal teatro. Se lo facessi, mi consumerebbe. Però qualcosa resta sempre, come una nota che continua a vibrare anche nel silenzio.

A. Kosta: Ha mai cantato con la voce rotta da un’emozione personale? Come ha gestito quel momento?

M. P. Garofalo: Sì. La vita non si ferma per rispetto della scena, e a volte la scena diventa lo spazio dove la vita esplode.
Ricordo una recita di La Traviata, in un momento in cui stavo attraversando una perdita personale molto profonda. Quando ho cantato “Addio del passato”, la voce ha tremato, ma non per debolezza tecnica: era il cuore che parlava.
In quei momenti si impara a non lottare contro l’emozione, ma a incanalarla. Si canta dentro la crepa, e quella crepa diventa forza. Il pubblico lo percepisce subito: non c’è finzione che tenga. Se la voce si rompe in verità, non è un errore — è un dono condiviso.

A. Kosta: Se potesse parlare con un compositore del passato, cosa le chiederebbe riguardo un suo ruolo?

M. P. Garofalo: Vorrei sedermi con Umberto Giordano, in silenzio, magari davanti al manoscritto di Andrea Chénier, e chiedergli:
“Quando hai scritto Maddalena, sapevi che stavi dando voce a tutte le donne che si trasformano attraverso l’amore e il dolore?”
Vorrei sapere se quella musica, così fisica e insieme poetica, nasceva da un’esperienza personale o da un sogno.
E forse gli chiederei anche: “Tu credi che l’arte possa davvero salvare chi la fa?” — perché interpretare Maddalena, per me, è stato esattamente questo: una salvezza.

A. Kosta: Cosa desidera che rimanga nel cuore di chi l’ascolta dopo un suo recital: la voce, l’emozione o un pensiero silenzioso dentro il suo silenzio che scatena tramite la voce?

M. P. Garofalo: Desidero che resti un’eco, non un suono. Non qualcosa da ricordare con la mente, ma da portare nel cuore.
Se chi mi ascolta uscendo dal teatro sente che dentro è cambiato qualcosa, anche di impercettibile, allora sento di aver fatto il mio dovere. La voce è uno strumento, l’emozione è una corrente. Ma ciò che davvero conta è quel pensiero silenzioso che si accende nel silenzio, dopo l’ultima nota. Quello che non si dice, ma che continua a vibrare. Io non canto per lasciare un’impressione: canto per creare una risonanza, per risvegliare qualcosa di più profondo.

A. Kosta: In questa intervista notiamo che Maria Pia Garofalo non è soltanto una voce che ascolta e ci fa ascoltare: essa è una presenza che incarna passione, studio e impegno culturale. La sua visione, che unisce il palcoscenico all’impegno nella direzione artistica, rappresenta un nuovo modo di intendere l’opera oggi. Con autenticità e intensità, continua a dare forma a un percorso che è, prima di tutto, umano, ciò che oggi necessita il nostro mondo e pianeta.
Ringraziandola per avermi contattata personalmente per essere qui oggi le auguro tanto successo nella sua carriera professionale.

Maria Pia. G: Grazie a Lei Angela, per la sua disponibilità e a tutti i lettori ovunque ci seguiranno.




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