Nel cuore della Sabina, tra colline che sembrano custodire il tempo, sorge il monastero delle Clarisse Eremite di Fara Sabina. Un luogo di clausura, di preghiera, di silenzio. Ma anche di mistero.
Nel 1806, con la promulgazione dell’editto napoleonico di Saint Cloud, le regole sulle sepolture cambiarono radicalmente. Non si poteva più seppellire i morti dentro le mura cittadine. Le tombe dovevano essere spostate in luoghi assolati, ventilati, lontani dai centri abitati. Era una misura sanitaria, ma anche ideologica: tutti i defunti dovevano avere sepolture uguali, senza distinzione.
Le Clarisse, obbedienti, iniziarono a disseppellire le consorelle sepolte nel cimitero privato del convento. E fu allora che accadde qualcosa di straordinario.
Diciassette corpi, risalenti al XVII secolo, furono trovati intatti. Non solo le ossa. Ma le parti muscolari, i volti, le mani. Come se il tempo si fosse fermato. Come se la morte avesse avuto pudore.
Le monache, sconvolte ma serene, decisero di non trasferirli. Li collocarono all’interno di un muro del monastero, come custodi silenziose della loro storia.
Nel 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale, il convento fu bombardato dagli Alleati. Molte parti furono distrutte. Ma quando, nel 1963, iniziarono i lavori di ricostruzione, accadde di nuovo: I corpi riapparvero, intatti come prima. Neanche le bombe li avevano toccati.
La badessa dell’epoca, madre Beatrice Mistretta, decise di modificare le regole della clausura e di ricostruire il monastero con le consorelle. Falegnami, carpentiere, donne di fede e di mani. E nel fare questo, ritrovarono le fondatrici. Le prime 17 monache del convento. Le stesse che, secondo i registri, avevano dato vita alla comunità nel 1600.
Nel 1994, le Clarisse decisero di vestirle con l’abito dell’ordine e di collocarle in un’urna di vetro. Lo fecero con delicatezza, ma anche con stupore: I corpi non si erano deteriorati. Le vesti si posavano su di loro come se fossero vive.
Oggi, le monache pregano accanto a quelle consorelle di quattro secoli fa. Non è un atto macabro. È un atto di fede. Di continuità. Di mistero.
Chi visita il monastero può vedere le 17 monache incorrotte, custodite in una stanza silenziosa. Non parlano. Ma sembrano ascoltare.
E forse, in quel silenzio, c’è la risposta che nessuno ha saputo dare. Perché il mistero non sempre chiede spiegazioni. A volte, chiede solo rispetto.
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