La tela giace accanto a lei, vi è qualcosa di adrenalinico... e nasce un'opera d'arte
Artemisia Gentileschi (1593-1656) fu una delle pittrici più famose del suo tempo e visse una vita costellata di successi ma anche di avvenimenti dolorosi. Oggi, si ricorda non solo per la bellezza dei suoi quadri, ma anche per il processo contro il suo stupratore che la vide protagonista
La tela giace lì di fronte a lei. Vi è qualcosa di adrenalinico, di inebriante, in una tela che non è ancora stata dipinta: la possibilità di immaginare ciò che potrebbe diventare. Artemisia scruta la tavola bianca con occhi curiosi e attenti, e mentre sistema i pennelli, sente la voce autoritaria di suo padre: ”Un vero artista non si accontenta di nulla di meno che della perfezione” . E lei, per tutta la vita, aveva ricercato la grandezza, aveva ricercato un posto nel mondo attraverso la sua arte. Soprattutto, non aveva mai dimenticato gli insegnamenti del padre. Orazio Gentileschi aveva notato il suo talento e, fin da quando la figlia era piccola, l’aveva istruita nell’arte della pittura. Artemisia ricorda le giornate intere trascorse nella bottega romana del padre, giocando con le mille sfumature di colori, giocando con la sua irrefrenabile fantasia, desiderosa di imprimere su una tela un piccolo frammento del mondo che la circondava. “L’arte è un dono” le diceva sempre suo padre “è la più grande forma d’amore che possiamo regalare a noi stessi e agli altri.”. Ma i giorni colorati dell’infanzia presto sparirono, cancellati da avvenimenti ben più dolorosi. Nonostante siano passati molti anni, ogni volta che il nome di Antonio Tassi fuoriesce in qualche conversazione, un brivido freddo di terrore le percorre la schiena tesa. Stringe le mani, il cuore aumenta i battiti, ed il respiro si fa più veloce, e quasi le sembra di rivedere la sagoma dell’uomo attorno a lei: i capelli scuri e disordinati, il sorriso sghembo e gli occhi penetranti e color della pece, carichi di un desiderio che l’aveva sempre messa a disagio. Non le era mai piaciuto Tassi, nemmeno quando suo padre gliel’aveva presentato come uno dei maggiori geni del suo tempo. “Ti insegnerà la prospettiva. E’ un vero maestro.” e lei-da brava figlia devota, animata dalla voglia di compiacere suo padre, ma soprattutto dalla voglia di imparare- aveva messo a tacere le sue sensazioni. Ma il ricordo di quel giorno –quel 6 maggio del 1611- ancora le suscita dolore: ricorda come lui l’avesse stata spinta sul letto, come una bambola di stoffa tra le sue mani. Ricorda come lui le avesse tappato la bocca, intimandole di non emettere alcun suono. lì, su quel letto svestita-forse un secondo, forse un giorno, forse un’eternità. La bocca era serrata, aveva cercato di strapparsi a quella morsa violenta ma ogni grido, ogni gesto, ogni lacrima furono inutili. Si sentì impotente. Si sentì perduta. “Dovrò sposarlo. Dovrò sposarlo o sarò rovinata. Mi ha strappato l’innocenza, non può strapparmi anche il mio futuro.” Aveva sempre avuto fiducia in Dio, ma si sentì come se Dio l’avesse abbandonata o come se l’ostacolo che le avesse messo di fronte fosse troppo difficile da affrontare. Si sentiva punita per un peccato che non aveva commesso. Aspettò un anno, ma la proposta di matrimonio-un matrimonio che ella detestava, ma che le appariva come l’unica soluzione-non arrivò mai. Successivamente, apprese una verità che l’avrebbe rovinata: Tassi era già sposato. Convinta dal padre, si rivolse alla giustizia. Pensò: “Qualcuno dovrà pur ascoltarmi” Imparò come le persone siano molto restie ad ascoltare voci che non vogliono udire, e quanto il cammino verso la verità sia ”La verità vi farà liberi”, citava un passo della Bibbia, ma allora perché così tanti uomini la temono? O forse non vogliono accettare la verità che proviene dalla voce di una donna? Ovunque andava, le occhiate delle persone la inseguivano impenitenti. Sapeva cosa pensavano di lei, sapeva cosa sussurravano alle sue spalle. Il tribunale, poi, fu quasi un’esperienza ben peggiore. Si sentiva piccola-una fanciulla divenuta donna da poco-mentre dall’alto della loro superiorità istituzionale i funzionari ascoltavano la sua triste vicenda. Raccontare qualcosa equivale a riviverlo, ed ogni volta che narrava gli avvenimenti di quel pomeriggio di fronte alla corte, sentiva il suo cuore avvolto in una morsa soffocante. “Quante volte dovrò rivivere il mio incubo, quante volte dovrò incontrare il demone che mi ha ferito, prima di poter essere di nuovo libera?” La verità richiede coraggio. La verità richiede sacrificio. In nome della verità ,accettò di sottoporsi alla “tortura della Sibilla.” Quando glielo comunicarono, ella rabbrividì. Sapeva in cosa consisteva: lo schiacciamento delle falangi. “Potrei perdere l’uso delle dita.” Aveva pensato. “Potrei non dipingere mai più. Per me non esiste tragedia più grande che osservare la bellezza nel mondo e non poterla ritrarre.” Ma la sua verità, la sua giustizia-era molto più importante. Accettò, continuando a ripetere la sua verità mentre il dolore l’accecava.
I giorni del processo furono un cammino infernale in attesa di una salvezza che non sapeva se sarebbe mai arrivata. La sentenza fu proclamata: Tassi fu riconosciuto colpevole e condannato all’esilio. Forse, dopotutto, qualcuno aveva ascoltato le sue preghiere. Imparò, però, come anche nella voce della legge potesse celarsi un inganno: Tassi non lasciò mai Roma, circondato da potenti che continuavano a proteggerlo. D’altronde, era un uomo ormai troppo importante per subire le conseguenze di ciò che aveva fatto ad una ragazzina-che, molti, consideravano ancora una bugiarda. Dio le aveva dato ragione, la legge le aveva dato ragione, ma la coscienza della folla era sorda ad ogni proclamo. Fu costretta a sposarsi frettolosamente con un modesto pittore per poter salvare il suo onore di donna, il suo onore di persona, la sua reputazione ormai rovinata. Roma non l’abbracciò come aveva sperato, ma la giudicò, l’abbandonò, la distrusse. E lei, dopo averle gettato un ultimo sguardo sulle cime del Gianicolo, decise che era giunto il momento di cancellare il passato. Diede addio alle strade dove era solita giocare da bambina, diede addio alla casa di suo padre, diede addio alla bambina che era stata, e decise di partire.
Affonda le mani nel pennello, e comincia a mescolare i colori. Se ripensa alla sua vita, le appare come un incantevole carta geografica, un mosaico di sensazioni, luoghi, odori e visioni che si susseguono una di seguito all’altra. Ricorda Firenze, bellissima e artistica, ricorda Napoli e quel vociare incessante delle allegre persone attorno a lei, ricorda Venezia, e la bellezza malinconica delle mille passeggiate che era solita fare. Mille luoghi, mille volti aveva conosciuto. Quanto avrebbe voluto estrapolare per sempre un pezzo di ogni città, e portarne con sé quei mille dettagli che avevano catturato la sua attenzione, le emozioni che aveva provato, le anime che aveva sfiorato anche solo per un breve istante. Ricorda le mille persone conosciute nella sua lunga vita e, tra molte, con un sorriso le giunge davanti il volto di un uomo singolare, dai capelli bianchi candido e dallo sguardo determinato. Un uomo combattivo, un inventore, il quale aveva anche azzardato un paio di idee strampalate, come quella che la Terra girasse attorno al In quella figura così particolare, aveva riconosciuto una parte di sé stessa: un amore sconfinato per la verità e il timore e la paura di non essere ascoltata. Le lettere di Galileo Galilei, sempre così fitte e ricche di insegnamenti, costituivano per lei una grandissima ricchezza. Le mancavano le loro conversazioni intellettuali, le mancava apprendere da lui il movimento dei pianeti ed il nome delle costellazioni che osservava nel cielo notturno, ma era grata di aver potuto conoscere un uomo della sua levatura.
Mentre fuori dalla finestra il cielo comincia a tingersi di nuvole, pensa a quanto le mancasse l’Italia. L’Inghilterra-dove si trovava al momento come pittrice nella corte di Re Carlo I-era troppo fredda, troppo piovosa per i suoi occhi abituati ai colori e al sole raggiante della sua penisola italiana. Era bello, però, ritrovarsi in una nuova città: ogni volta che metteva piede in un nuovo luogo le sembrava che mille opportunità le si spalancassero davanti. Possibilità di rinascere. Possibilità di riscrivere sé stessa e la sua storia. Possibilità di creare. Osserva il quadro davanti a sé, ormai ultimato. Un flebile sorriso le tinge il volto mentre osserva l’opera appena compiuta. Ha sempre ritratto eroine bibliche o mitologiche, ma per quest’opera ha voluto concentrarsi sulla figura che conosce meglio. Sé stessa mentre dipinge. La donna ha fattezze molto simili alle sue: i capelli scuri-più neri nel dipinto- le sue guance piene, il mento sporgente, le labbra carnose. La donna del quadro, vestita di un abito semplice ed umile, con una mano tiene il pennello e con l’altra la tavolozza. “Lo chiamerò Autoritratto come Allegoria della Pittura” pensa, ed il suo spirito è scosso da un moto di commozione. L’arte le è sacra come la sua stessa vita. Era stata l’ancora di salvezza nei suoi momenti difficili, era stata il portale che le aveva consentito di poter viaggiare e di avere un vero scopo nella vita. Non sa come i posteri la ricorderanno, non sa se i suoi quadri abbelliranno le mura dei palazzi o finiranno in qualche soffitta polverosa, ma sa cosa è stata in grado di fare: vivere della sua passione, impegnarsi per raggiungere sempre la perfezione, affrontare le tempeste della vita con coraggio e determinazione, con una fede profonda nelle proprie capacità. Per tutta la vita, aveva sempre cercato di adempiere ad un giuramento che aveva fatto a sé stessa, mentre pregava in chiesa durante i giorni del processo: ”Finché vivrò avrò il controllo sul mio essere.” Sperava, nonostante tutto, di esserci riuscita.
Artemisia G
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