NEZI PLAKU VELAJ: "LE AVETE TROVATO LE MIE LACRIME?"
RECENSIONE
Sin dai primi versi, la poesia “Le avete trovato le mie lacrime?” si presenta come un grido accorato di dolore e sofferenza, in cui l’autrice albanese Nezi Plaku Velaj, attraverso allegorie intense e simboliche, rievoca un vissuto personale che si fa collettivo: quello dell’orrore, della violenza e della disumanizzazione subita sotto la dittatura del regime comunista in Albania.
La poesia inizia con la domanda retorica:
"Le avete trovato le mie lacrime?”
Non si tratta di una semplice richiesta - domanda - indagine, ma bensì di un sentimento poetico potente. Le lacrime diventano il ritratto della sofferenza repressa, dimenticata, occultata. Non sono solo lacrime versate, ma “perle” che brillano negli occhi di una bambina, fragile e preziosa che il regime non ha saputo proteggere. Questo approccio trasforma la sua vulnerabilità in un gioiello di rispetto, orgoglio e dignità.
Il secondo verso: “Quelle perle che brillavano nelle pupille degli occhi”, rafforza la sacralità di questo dolore. Come uno scrigno che custodisce la sofferenza umana, la pupilla, dà al pianto una dimensione visiva e spirituale.
“Quel giorno… lacrime bollenti si versarono sui gradini di pietra”, emerge con forza la concretezza della memoria: il dolore non è astratto, ma inciso nel tempo e nello spazio.
I “gradini di pietra”, richiamano non solo i luoghi istituzionali o carcerari di un paese sotto regime, ma rappresentano inoltre anche la freddezza dell’oppressione.
La poesia assume toni di invettiva e testimonianza: “cariche d’ira e maledizioni erano, di sospiri e lamenti”.
La pluralità degli elementi emotivi: ira - maledizioni - sospiri, ci mette di fronte la propria tragedia collettiva: non solo l’anima ferita della poetessa, ma anche quello di un intero popolo sofferente.
"Il boato nell’innocenza del dolore di una bambina", è un passaggio straziante.
Qui l’autrice Velaj, affonda la baionetta nel cuore dell’ingiustizia: l’infanzia violata, la tenerezza tradita, il trauma precoce che si insinua in una creatura che avrebbe dovuto conoscere solo l'amore paterno e quello universale.
“Nel vortice di un mondo falso, colmo di menzogne, vivevano”, è un’accusa diretta al sistema. Il “vortice”, proclama l’inganno ideologico, la propaganda, l’ipocrisia di un potere che predicava uguaglianza ma produceva terrore e annientamento dell’identità.
Poi, con uno slancio lirico e tragico insieme, la poetessa Velaj confessa: “Non ho potuto abbracciare il grande amore, quello più sacro, più divino”. Qui viene messo a fuoco l’assenza paterna. La figura del padre non è solo quella di un genitore, ma è anche l'emblema della protezione, del fondamento psicologico e spirituale. La sua assenza è metafora dell’assenza dello Stato, della sicurezza degli esseri umani e della giustizia di un popolo taciturno dinnanzi alla repressione.
"Le fondamenta dell’affetto che un padre dona a un figlio, demolirono” , e la soppressione della speranza, “le scintille ardenti del cielo spensero”, sono espressioni di un annientamento sistematico della dimensione umana, affettiva e relazionale.
Il verso: “il cuore in croce misero, una baionetta conficcarono”, riprende toni fortemente cristologici: il dolore personale si fa sacrificio, martirio. La crocifissione è il rispecchio dell’ingiustizia estrema. La baionetta rappresenta la violenza brutale, fisica e simbolica, inferta non solo sul corpo di un individuo, di una intera patria ma anche sull’anima.
In tutta la poesia di Velaj, emerge chiaramente la denuncia contro un sistema totalitario che ha violato l’infanzia, l’amore, la famiglia e la sacra memoria. L’uso delle potenti metafore - allegorie: lacrime come perle, occhi come reliquiari, cuori crocifissi, testimoniano un dolore tanto personale dell'autrice albanese, quanto quello politico della sua patria. Il tono è tragico ma trasparente, perciò la sua parola poetica diventa uno strumento di memoria storica e di giustizia morale.
Anche nel seguire dei versi, la poetessa Velaj intensifica questo tono tragico ed espone con maggior forza, il trauma collettivo e personale che essa mette in scena: un dramma che, pur avendo radici autobiografiche, rappresenta le innumerevoli violenze del regime comunista in Albania.
Il verso: “Quello più sacro quanto lo cercai… Se sapeste... Ma non lo trovai mai e da nessuna parte...”, è l’ammissione dolente di una ricerca vana, un pellegrinaggio esistenziale alla ricerca di ciò che è irrecuperabile: l’amore paterno, la protezione perduta, la giustizia. Qui, l’autrice non si limita a una lamentazione passiva: la sua voce è quella di chi e di ciò ha cercato disperatamente, lottando con l’anima, ma che purtroppo ha incontrato solo assenza oppure indifferenza.
Leggendo, i versi, notiamo che segue un’immagine poetica di grande impatto:
“E la minuscola goccia, un grido di lampi divenne”. La lacrima, già metafora di dolore dall’inizio della poesia, ora esplode in una metamorfosi violenta. Non è più silenziosa, ma diventa grido, scossa, tempesta. Ciò, è un’urgenza dell’anima che si ribella alla repressione.
L’amore sognato viene descritto: "vasto come il mare e limpido come il cielo”, ma questa vastità viene spezzata: “con pietre focaie lo colpirono, entrambi gli occhi le cavarono”.
Qui, la crudeltà che la poetessa mette a disposizione è estrema. L’amore viene accecato, mutilato, brutalizzato. La perdita del padre, o della figura paterna, diventa la negazione di ogni riferimento affettivo e morale. La bambina “senza padre… con le braccia aperte” , è l’apice dell’innocenza disarmata, della creatura esposta a un mondo ostile senza alcuna difesa.
Il passaggio “La uccisero alcuni demoni con la pelle rossa del diavolo”, è carico di valenze allegoriche: i demoni, connotati dal “rosso” (colore del comunismo), rappresentano il potere repressivo che si traveste da ideologia ma agisce come forza distruttiva. Inoltre, la pelle rossa espone il sangue, il fuoco, ma anche il quadro ideologico di un regime che si è reso carnefice.
Con: "Predatori di cuori”, “la lacerarono con gli artigli, con i zoccoli venne calpestata ”, l’autrice dà ai persecutori una forma selvaggia, animalesca, ferina, quasi mitologica. Non sono solo uomini, ma esseri spietati, privi di umanità. L’oppressione non è solo fisica, ma anche affettiva: essi distruggono la possibilità stessa, di andare oltre l'amare.
Molto significativo è anche il verso: “la stella, al cielo strapparono”. Questa metafora, non è solo una stella, ma è la guida verso la speranza e il destino. Strappata al cielo, indica l’interruzione del cammino e del sogno di essere tra le braccia di suo padre. "Misero degli angoli, solo cinque…”, è un’allusione amara all’allegoria della stella a cinque punte, la quale rappresenta l'emblema del comunismo. La stella che nel cielo avrebbe dovuto indicare la luce, nella propaganda, diventa invece un sigillo di oppressione.
Terribile e potentissima la chiusura di questo verso: “Con il quinto angolo, accecarono l’aquila con le due teste sulla bandiera”.
Qui la poetessa tocca - attacca direttamente il cuore dell'identità dell’Albania: l’aquila bicipite, simbolo storico e patriottico, viene accecata. La simbologia è netta: la patria è stata resa cieca, incapace di vedere la verità, la giustizia, la libertà. Tale ideologia, ha strappato la vista a un popolo intero per quasi mezzo secolo.
Segue pure la perdita della forza vitale: “le soffocarono il respiro, la libertà le derubarono”. L’essere umano viene spogliato della sua essenza, non solo fisicamente ma anche psicologicamente e spiritualmente.
E ancora più toccante, è: “Sulle labbra come una valanga, si congelò la pronuncia padre"
Il ghiaccio della paura, del trauma, dell’assenza ha sigillato la possibilità di rinunciare- pronunciare ciò che è più caro. Non si tratta solo della perdita del padre biologico, ma anche della soppressione della paternità come riferimento etico, affettivo e sociale. “Mai più fu balbettata” indica una rottura definitiva: ciò che è stato strappato, non può più essere restituito.
Il verso: "E quella lacrima… come il latte del seno di Rozafa… si versò e mai più si asciugò”, è denso di risonanza storica.
Rozafa è figura mitologica e archetipica non solo di Scutari ma dell'intera Albania. Essa rappresenta la donna martire che murata si sacrifica per la fondazione e per l’edificazione. Accostare la lacrima simile al suo latte che continua a scorrere al di là del passare dei secoli,
è un gesto poetico potentissimo da parte di Velaj e quasi sovrannaturale direi. Con ciò, essa ci presenta la sofferenza della donna, della madre, della figlia che non si estingue, ma che diventa materia viva, memoria liquida, fluida e permanente. Scorrendo come una sorgente, senza fermarsi mai, senza asciugarsi mai, quella lacrima divenne perenne, e come tale, si trasforma in un atto di riscatto.
In questa poesia, Velaj assume toni epici e mitici, intrecciando non solo i ricordi personali, ma anche il lutto della sua nazione.
La poetessa costruisce un linguaggio che fonde biografia e metafora, trasformando il dolore in affermazioni, e la poesia in strumento di giustizia verso chi ha pagato le conseguenze dall'orribile regime comunista.
Appunto per questo, (ripetendola varie volte nei suoi versi), Velaj definisce la lacrima esplicitamente: “di cristallo” e “perla preziosa”, definizioni che le conferiscono un’aura di purezza e sacralità.
La “cavità del muro” in cui la lacrima è nascosta, proclama un luogo segreto, un nascondiglio sotterraneo, dove il dolore si conserva e si cela alla vista, come fosse un tesoro fragile ma vitale. La lacrima diventa pure "unica con il goccino del latte del seno”, un’immagine di estrema tenerezza e nutrimento, che unisce la fragilità della vita neonatale con il sangue, suggerendo la commistione di sofferenza e vita.
Il verso “scivolava, colava dalla bocca tenera della neonata”, è estremamente autentico: così, la lacrima è legata all’innocenza e alla vulnerabilità da apparire come parte stessa della vita più pura. "Il sorriso di cristallo" e "la luce diffusa alle costellazioni", rendono la poesia ancora più magica, elevando la lacrima a una sorta di grande energia vitale.
"Palpebre bruciate dal sole” e “fili delle palpebre”, è una metafora potente del dolore che arde e segna, ma anche della sofferenza che rimane sospesa e invisibile agli altri, nascosta dietro un’apparenza duramente e difficilmente dura. La lacrima è definita “ambra”, una gemma fossile, preziosa ma antica, quasi un ricordo immutabile nel tempo.
Velaj invoca pure Dio, con il verso “Vi supplico in nome del Dio”, conferendo al suo dolore un carattere sacro, quasi a chiedere giustizia o una risposta da un ordine superiore a quello umano. Ma le lacrime, immerse nel fango, nei canali, tra i giunchi, sembrano dimenticate e calpestate:
"lo zoccolo di uno stivale malvagio lo calpestò”. In questa ferocità, appare la brutalità del potere che schiaccia e ignora le vittime.
La fatica della ricerca, la disperazione dei ricordi, il corpo che cammina tra rovi e giunchi fitti, è un viaggio figurativo nella sofferenza e nella perdita, dove si sono persi la bellezza, la gioventù e la speranza. Le “spine del tormento e della sofferenza”, rappresentano la tortura non solo fisica ma profonda, psicologica e morale.
La “lacrima degli anni spietati”, dà voce all’innocenza violata, specialmente quella di una ragazza con “occhi verdi” e “cigli neri”, un’immagine viva e personale che si generalizza in tutte le creature innocenti che hanno subito le stesse oppressioni.
La “lacrima congelata sulla bocca della neonata, mescolata con sangue e latte bollente", è una figura intensamente tragica, che rappresenta il dolore precoce, la perdita del nutrimento fisico e quello morale. Il verso: "metà lacrima succhiata e metà caduta giù", evoca la frantumazione, la divisione tra ciò che è stato perso e ciò che ancora resiste e persiste.
Velaj tenta di evitare, "le voci dei corvi”.
Questo idealizza la paura dei presagi, della morte o di avversità inevitabili, poiché, spesso i corvi sono simboli di disgrazia e di oscurità.
Tutta la poesia di Velaj è una meditazione dolorosa, una lirica sul dolore incancellabile e sulla memoria di un trauma non solo della poetessa in sé, ma di un popolo intero, e tale trauma - tragedia, non può essere ignorata o sepolta. La sua lacrima, purché nascosta nelle “cavità dei muri”, continua a scorrere come lacrima eterna, capace di illuminare anche nell’oscurità più profonda.
LE AVETE TROVATO LE MIE LACRIME?...
Le avete trovato le mie lacrime?
Quelle perle che brillavano nelle pupille degli occhi?
Quel giorno…
lacrime bollenti si versarono sui gradini di pietra,
come una sorgente,
cariche d’ira e maledizioni erano,
di sospiri e lamenti,
oh, quanti sospiri!
Boato
nell’innocenza del dolore di un bambina,
tra lamenti taciturni,
nel vortice di un mondo falso,
colmo di menzogne, sopravvivevano.
Non ho potuto abbracciare il grande amore,
quello più sacro, più divino.
Le fondamenta d'affetto che un padre dona a una figlia, demolirono,
le scintille ardenti del cielo spensero,
con manette in prigione li pietrificarono.
Lì morirono...
La mia lacrima di cristallo graffiarono,
il cuore in croce misero
una baionetta conficcarono...
Quello più sacro
quanto lo cercai…
se sapeste...
ma non lo trovai
mai più e da nessuna parte...
E la minuscola goccia,
un grido di lampi divenne,
quel grande amore,
vasto come il mare e limpido come il cielo,
con pietre focaie lo colpirono
entrambi gli occhi le cavarono,
senza padre la lasciarono,
il pargoletto con le braccia aperte.
La uccisero alcuni demoni
con la pelle rossa del diavolo
la lacerarono con gli artigli
alcuni predatori di cuori.
La lacrima sulle palpebra le asciugarono,
la stella, al cielo strapparono,
e misero degli angoli,
solo cinque...
Con il quinto angolo,
l’aquila con le due teste sulla bandiera, accecarono
le rubarono la forza,
le soffocarono il respiro
la libertà le derubarono…
Sulle labbra come una valanga,
si congelò la pronuncia "padre"
mai più fu balbettata.
E quella lacrima, scorrere la lasciarono
come il latte del seno di Rozafa,
quella lacrima,
come una cascata si versò
e mai più si asciugò.
La lacrima...
L'avete trovato la lacrima di cristallo,
quella perla preziosa?
Nella cavità del muro, fu nascosta
nella profondità misteriosa,
unica con il goccino di latte del seno era diventata,
dentro al capezzolo, con il sangue era mescolata.
Scivolava, colava dalla bocca tenera della neonata,
con sorrisi di cristallo
luce alle costellazioni diffondeva,
galleggiando con quel latte bianco
che dal seno mungeva.
La lacrima…
L’avete trovata la lacrima
nascosta
tra i fili delle palpebre bruciate dal sole?
Quell'ambra, quella perla candida, preziosa?
Quella goccia d’anima giovanile,
tradita dai venti dei tempi senza la luce delle lumi,
insieme al sudore
scorrevano nei solchi
nei campi e nelle pianure di grano.
Vi supplico in nome del Dio:
Le avete trovate?
Guardate là!
Immerse nel fango, nei canali e nei giunchi sono, con la testa in giù,
pure l’acqua torbida si beveva.
Acqua lurida,
mischiata con larve e vermi scuri.
La lacrima,
lo zoccolo di un stivale malvagio la calpestò,
non la lasciarono la lacrima
per custodirla nemmeno come ricordo?
Sono esausta a respirare con gemiti,
cercando le mie lacrime
mentre tra i rovi cammino
tra i giunchi fitti.
Là,
dove la meditazione
con la bellezza giovanile da fata persi,
tra i cespugli e il rimorso
della perdita e del dispiacere,
sopra le spine del tormento e della sofferenza.
L'avete trovato la lacrima degli anni spietati
d’innocenza di quella ragazza?
Quelle lacrime, calde, che dagli occhi verdi, scesero,
sotto i folti cigli neri si nascosero,
quella perla di cristallo, quella rara ambra.
Pure quella che si era congelata sulla tenera bocca della neonata,
mescolata col sangue rosso e il latte bollente del seno fu,
dalla fretta, solo la metà succhiava
mentre l’altra metà giù dalla bocca le scivolava.
In quel baccano, alcuni voci di corvi
di evitarli, tentai...
BIOGRAFIA
Nezi Plaku Velaj è nata a Konispol, nella provincia di Saranda in Albania. Residente a Tirana, ha saputo costruire una carriera poliedrica, alternando impegni istituzionali a momenti di intensa attività creativa.
La sua voce poetica, espressa attraverso numerose raccolte e partecipazioni a antologie nazionali e internazionali, si fa portavoce di un’anima sensibile e riflessiva, capace di toccare temi universali con delicatezza e profondità. Riconosciuta con premi prestigiosi e attestati di merito, Velaj incarna il giusto equilibrio tra rigore professionale e fervore artistico, facendosi apprezzare non solo come autrice, ma anche come attiva promotrice culturale e figura impegnata nel dialogo tra diritto e letteratura.
La sua professione è giurista e avvocata.
Ha lavorato presso il Ministero del Lavoro e delle Questioni Sociali e alla Direzione Generale delle Dogane; inoltre, ha esercitato la professione di avvocato in tribunale per alcuni anni. Ha interrotto questa attività per motivi di conflitto di interessi con la posizione lavorativa che essa ricopriva. Per un certo periodo, ha lavorato come ideatrice e conduttrice del programma “Personalitete - Personalità ” sui canali televisivi: RTSH e NTV. Finora ha pubblicato tre raccolte di poesie e ha in preparazione un raccolta di poesie, nonché raccolta di prosa intitolata: “Il Viaggio Della Cita”.
I suoi versi hanno avuto un posto di rilievo sulle pagine di numerosi giornali e riviste prestigiose, sia a livello nazionale che internazionale.
Velaj ha partecipato due volte al Festival Europeo della Poesia, ricevendo in entrambe occasioni il “Premio Speciale della Giuria”.
Membro del Consiglio Organizzativo del Congresso Nazionale Albanese, Velaj è molto attiva e parte integrante di essa.
Come citato in precedenza, il diritto è la sua professione ufficiale, perciò la conoscenza della giustizia e l’integrità, sono elementi fondamentali del suo carattere.
La letteratura è la sua passione e il suo cuore, mentre la poesia rappresenta la sua anima, il suo amore e il suo respiro; ciò è la vita con cui essa viaggia ogni giorno.
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