C’erano una volta i “morticelli”. Non erano dolcetti a forma di zucca, né cappelli da strega. Erano bambini con un sacchetto in mano, che andavano di porta in porta a chiedere: “Ci fate i morticelli?” E la gente rispondeva con dolci, castagne, mandarini, qualche monetina. Era il Sud. Era la Calabria. Era la festa dei morti.
Non era Halloween. Era una tradizione nostra, antica, tenera, commovente. Una festa che univa il cibo alla memoria, la strada alla condivisione, i bambini agli spiriti. Si cucinava per i defunti. Si apparecchiava per chi non c’era più. Si donava un piatto ai vicini, in nome di un’anima cara.
Ricordo le donne del rione, riunite come sacerdotesse della memoria. Preparavano la pasta dei mori, un tempo con i legumi, poi con la carne. Facevano il pane, lo spezzavano, lo regalavano. Apparecchiavano una lunga tavola in strada. Chiunque passasse poteva sedersi. Era una liturgia laica, una carezza collettiva.
Oggi, questa tradizione è quasi scomparsa. Al suo posto, biscotti a forma di zucca, dolcetti industriali, streghette di plastica. Che belli, certo. Ma non nostri.
Non è un lamento contro le tradizioni altrui. È un invito a ricordare che anche noi abbiamo bellezze da custodire. Tradizioni che parlano di affetto, di comunità, di rispetto per chi non c’è più. Tradizioni che possono essere modernizzate, rese più giocose, più adatte ai bambini ma sempre nostre.
Immagino le scuole, specialmente le elementari, che portano i bambini in giro per i rioni. Con un sacchetto in mano. A chiedere i morticeddi. A ricevere dolci, racconti, gesti. Sarebbe una lezione meravigliosa. Una lezione di storia, di cuore, di identità.
E magari, nelle vetrine, tornerebbero i biscotti dei morti. I pani dedicati. Le castagne offerte. Non per nostalgia. Ma per amore.
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