Saturno Magazine, Articolo: FRATTURA

FRATTURA

È un brano che fa male, ma proprio per questo è efficace. Non propone una soluzione, ma ci sbatte in faccia la nostra illusione di controllo, la nostra voglia di purificare il mondo da ciò che non va, quando spesso il seme della distruzione è dentro di noi.
È un testo che può far riflettere sul senso dell’etica, del sacrificio e della solitudine interiore di chi si sente impotente davanti al male.

 

FRATTURA

"Il male se n'è andato."

È quello che dice sempre mia madre ogni volta che un piatto, una tazza o un oggetto di vetro si frantuma—soprattutto dopo una pioggia improvvisa di benedizioni, un sogno atteso a lungo che si realizza, un obiettivo tanto desiderato raggiunto, o una meta inseguita con tenacia finalmente conquistata.

Dicono che il male bussi a porte e finestre, sempre in agguato, affamato di strappare ciò che può. Il suo appetito è insaziabile, quindi si allunga—talvolta con la mano, altre volte con la lingua, o persino solo con lo sguardo—verso la vita stessa. E quando non riesce a prendersi ciò che davvero desidera, si accontenta di ciò che trova lungo la strada, lo afferra e se ne va.

Ma dove porta il male tutte le cose spezzate?

Guardo la televisione, assorbendo notizie e immagini di massacri, guerre, disastri naturali, carestie e virus—pesti moderne che divorano migliaia di vite. I social, i giornali e le riviste ripetono lo stesso tetro coro.
"Quanto male pesa su questo mondo!"

Così ho deciso di liberare il mondo da quel male—pezzo dopo pezzo—finché non ne fosse rimasta neanche un’ombra.

Ho iniziato a rompere il vetro a casa. Nonostante i rimproveri, le accuse e i profondi sospiri dal trono materno, placavo la sua furia sostituendo ogni oggetto rotto con stoviglie infrangibili—in vetroresina, per l'esattezza.

Ogni piatto infranto mi dava una gioia selvaggia. La speranza mi gonfiava il petto.

Portavo avanti la mia missione in un terreno vuoto, lontano dal nostro quartiere, per non disturbare nessuno.
Col tempo, iniziai a comprare oggetti di vetro e soprammobili in grandi quantità, li infilavo nei sacchi e li trasportavo in quello che avevo battezzato "il Campo delle Fratture".

I frammenti si accumulavano, formando piccole colline scintillanti che catturavano la luce del sole e la riflettevano come stelle sparse.

La gente mi considerava strano—alcuni sussurravano "pazzo", altri "posseduto".

Persino la ragazza che amavo da anni mi abbandonò.

Eppure, il male del mondo non diminuiva. Al contrario—cresceva. Si moltiplicava.

Mi fu chiaro che il vetro non c’entrava nulla. Sono cose senza vita—senza anima, senza gioia né malizia. Non odiano, non ingannano, non rubano, non tramano, non fingono.

No, il problema sta nel cuore—quei vasi racchiusi nell’osso, avvolti da spugna, che battono in silenzio dentro ogni petto.

Allora decisi di rompere i cuori.

Ma incapace di ferire qualsiasi essere vivente, presi un coltello… e lo affondai nel mio stesso cuore.

Esplose in frammenti cristallini, spargendosi come fiori rossi

 

 

 

 

FRACTURE 
               
“Evil has taken its leave.”
 
That’s what my mother always says whenever a dish, cup, or glass object shatters—especially after a sudden downpour of blessings, a long-awaited dream fulfilled, a cherished goal achieved, or a long-sought aim struck in life.
They say evil knocks on doors and windows, ever lurking, hungry to snatch whatever it can. Its appetite is insatiable, so it reaches out-sometimes with its hand, other times with its tongue, or even just its gaze-toward life itself. And when it fails to claim what it truly desires, it settles for whatever lies in its path, seizes it, and departs.
But where does evil take all the broken things?
I watch television, absorbing reports and footage of massacres, wars, natural disasters, famines, and viruses—modern plagues that devour thousands. Social media, newspapers, and magazines echo the same grim chorus.
"How much evil burdens this world!"
Well then, I resolved to rid the world of it—piece by piece—until not a single shadow of evil remained.
I began smashing glassware at home. Despite the scolding, the reproaches, and the heavy sighs from my mother’s exalted station, I eased her fury by replacing the broken items with unbreakable plasticware—fiberglass, to be exact.
With every shattered dish, a wild joy coursed through me. Hope swelled in my chest.
I carried out my mission in an empty lot far from our neighborhood, not wanting to disturb a soul.
Eventually, I began buying glassware and ornaments in bulk, bagging them up and hauling them to what I called “the Shatter Yard.”
The shards piled high, growing into little glittering hills, catching the sunlight and throwing it back like scattered stars.
People thought me strange—some whispered “madman,” others “possessed.”
Even the girl I had loved for years abandoned me.
And still, the world’s evil did not wane. On the contrary—it grew. Multiplied.
It became clear to me that the glassware had nothing to do with it. They are lifeless things—soulless, without joy or malice. They do not hate, deceive, steal, scheme, or pretend.
No, the matter lies within the heart—those vessels encased in bone, cushioned by sponge, beating quietly within each chest.
So, I resolved to break hearts.
Yet unable to bring harm to any living being, I took a knife… and drove it into my own heart.
It burst into crystalline fragments, scattering like red blossoms across the gleaming hill of polished glass.

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