Saturno Magazine, Articolo: PARK HYO-SHIN - UNA VOCE CHE FIORISCE ANCHE NEL SILENZIO

PARK HYO-SHIN - UNA VOCE CHE FIORISCE ANCHE NEL SILENZIO

IL RITMO GIUSTO PER LA MIA ANIMA

Park Hyo-shin, voce che fiorisce anche nel silenzio

Francesca Gallello Gabriel Italo Nel Gòmez

Una scoperta sotto la neve

Da sempre scrivo, sognando. Ho recensito film e libri, cercando il cuore pulsante delle storie, quel filo invisibile che lega una parola all’anima. Durante il periodo pandemico, su incoraggiamento dei miei figli, ho iniziato a guardare serie tv — un territorio che avevo sempre evitato, troppo impaziente com’ero di sapere come finisce una storia.

E poi una sera è arrivato Mr. Sunshine. Una trama intensa, personaggi scolpiti nel dolore e nella dignità… e poi quella musica. Ogni volta che sentivo quella voce, il mondo sembrava rallentare. Non sapevo chi fosse il cantante, non conoscevo la lingua ma capivo tutto. E quando la serie finì, tra lacrime vere e una dolce nostalgia, sentii il bisogno di sapere. Scoprii così Park Hyo-shin.

Da quel momento, la sua voce è diventata parte del mio respiro. E questo articolo, prima ancora di essere un lavoro giornalistico, è un piccolo gesto d’amore e gratitudine verso un artista che sa parlare anche nei silenzi e che mi accompagna durante il mio lavoro di scrittura, diventando così il sottofondo della mia creatività.

Park Hyo-shin non è soltanto un cantante: è un narratore emotivo, il suono di una voce che racconta. La sua voce è come velluto liquido: calda, a volte struggente, sempre capace di insinuarsi nelle pieghe più fragili dell’anima. Debutta nel 1999, e con ballad come Good Person, Snow Flower e soprattutto Wild Flower, lascia un’impronta indelebile nella musica coreana.

La sua arte non si ferma allo studio di registrazione. Park Hyo-shin è anche un grande interprete teatrale. Ha dato voce e corpo a ruoli come Tod, la Morte (Elisabeth), Mozart il ribelle (Mozart!), il Fantasma (Phantom) e Gwynplaine, l’uomo che ride (The Man Who Laughs). Sui palchi dei musical ha dimostrato che non canta solo: vive.

Intervista immaginaria — Un dialogo tra voce e anima

Questa intervista non è reale, ma è vera nell’intenzione. È un omaggio narrativo, un piccolo sogno ad alta voce — e se Park Hyo-shin potesse sentire queste parole, vorrei che sapesse che nascono da stima, poesia e gratitudine. La scrivo sognando di poter, un giorno, fare davvero una intervista e la prima domanda sarebbe: Cosa si prova ad entrare nell’anima delle persone che ti ascoltano?

In questa intervista immaginaria, così come circa un anno fa feci per un libro dedicato al mio filosofo preferito, Kahlil Gibran, le domande avranno risposte estrapolate da sue canzoni o dichiarazioni pubbliche.

Sperando di fare cosa gradita a Lui ma anche ai suoi tanti ammiratori. Buona lettura.

 

 

Francesca: Se dovessi descrivere la tua voce con un aggettivo, quale useresti?

Park: Onesta. Non sempre è perfetta, ma è vera. Quando trema, si sente. Quando piango, anche. È il mio modo di dire “sono qui”, anche quando tutto dentro vorrebbe nascondersi.

Francesca: Hai interpretato personaggi intensi come la Morte, il Fantasma, Gwynplaine. Dove trovi quella luce che porti sul palco?

Park: Nei vuoti. Nei momenti che sembrano troppo bui per farne arte. Il palco per me è rifugio e battaglia: ogni ruolo è una cicatrice che diventa canto.

Francesca: Se potessi cantare una sola canzone per sempre?

 Park: Wild Flower. L’ho scritta in un momento di fragilità, ed è diventata la mia rinascita. Ogni volta che la canto, fiorisco di nuovo, anche sotto la neve.

 

Nel panorama musicale contemporaneo, Park Hyo-shin rappresenta una figura rara: un artista che conquista il pubblico giovane attraverso le OST delle serie, e quello adulto con ballad che ricordano i grandi interpreti della tradizione. Una voce che plasma generazioni.

Il suo stile fonde orchestrazioni classiche con arrangiamenti moderni, creando un linguaggio musicale che non è semplicemente “coreano” — ma profondamente umano. La sua influenza si misura non in classifiche, ma in emozioni lasciate.

C’è una bellezza che non chiede di essere vista. Wild Flower è questo: una preghiera sommessa, una dichiarazione d’esistenza per chi ha imparato a sopravvivere dove nessuno guarda, una lirica che resiste al gelo.

La melodia è costruita come un paesaggio emotivo: parte con il suono esile di un pianoforte, poi si apre in un crescendo che non è mai urlato, ma inevitabile. È il respiro che abbiamo trattenuto troppo a lungo.

 “Non è un inno alla vittoria, ma alla sopravvivenza poetica.”

Filosoficamente, è una meditazione sulla forza gentile. Un fiore che sboccia non perché le condizioni siano perfette, ma nonostante tutto.

Ci sono artisti che scrivono. Altri che cantano. E poi ci sono quelli che, come Park Hyo-shin, cantano come se stessero scrivendo una poesia che non ha bisogno di carta.

Nel suo modo di raccontare l’amore, la perdita, la solitudine e la rinascita, Park sembra dialogare con due grandi poeti coreani che amo: Kim Sowol e Ko Un.

Con Kim Sowol: l’addio che non fa rumore Sowol scrive: > “Se te ne andrai, senza una parola, / ti seguirò con i piedi stanchi…”

E Park, in Wild Flower, sembra rispondere: > “Anche se il vento mi piega, / io fiorisco lo stesso.”

Con Ko Un: la voce che raccoglie il tempo Ko Un scrive: > “Ogni essere è una poesia in sé.”

E Park sembra sussurrare: > “Ogni nota che canto è una vita che ho incontrato.”

Tre voci, un’unica eco. Kim Sowol, Ko Un, Park Hyo-shin. Tre modi diversi di dire la stessa cosa: che la bellezza non urla, ma resta.

Non ho voluto aggiungere la mia voce a questi tre grandi personaggi, voglio invece stare seduta ad ascoltarli, a leggerli come se fossero a un passo dame, come se fossero, in realtà lo sono, STORIA! Ascoltare un poeta che scrive l’abbandono con la delicatezza di un petalo che cade. Ascoltare un altro che raccoglie il tempo e lo trasforma in silenzio pieno di senso. E ascoltare Park Hyo-shin, che canta con la nostalgia di chi ha vissuto ogni nota prima di regalarla.

Nello scrivere questo articolo, seppur seduta da sola a questa mia vecchia scrivania ricoperta di carte stropicciate, libri e una serie di tazzine di caffè bevute e finite senza accorgermene, sono rimasta a qualche passo da loro, non per timidezza, ma per rispetto. Eppure, credo che chi ama la poesia — scritta, sussurrata o cantata — li riconoscerebbe come fratelli. E mentre loro parlavano, io prendevo appunti nell’anima, cercando tra le tazzine l’ultima goccia di caffè, in questa giornata calda di fine maggio, mentre una colomba picchietta con il suo becco, sul vetro della mia finestra.

Non ho mai stretto la mano di Park Hyo-shin, ma lui ha stretto la mia anima con ogni nota. E forse è questo che fa un grande artista: ti tocca anche quando non lo sa. È una sensazione che ho provato solo leggendo certi classici — quando una frase ti attraversa e resta lì per anni, come un’eco. E se un giorno, leggendo un mio romanzo o una mia poesia, qualcuno dovesse sentire lo stesso… allora potrei dire di avercela fatta. Non solo come autrice, ma come essere umano che ha lasciato qualcosa di bello dietro di sé.

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